domenica 9 giugno dalle ore 11 alle ore 18
nel nostro studio di Piazza Carducci 130 (citofono n. 1) a Torino
si terrà il terzo incontro/confronto sull'arte "Davanti a un fiume in piena".
Gli ospiti che interverrano in questo incontro sono, in mattinata:
- Domenico Olivero, (Cuneo), presenterà una panoramica sulla Biennale di Venezia 2013
- Alessandro Quaranta, artista ci parlerà del suo lavoro,
- Lucia Polano, (Cuneo) artista con un intervento sul ruolo dell'arte e dell'artista nel mondo del disagio e del sociale.
Dopo una pausa pranzo comunitaria serguiranno nel pomeriggio:
- Marina Buratti, (Alessandria) con un intervento dal titolo "Ritagli d'identità"
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Marina Buratti |
- Ivan Fassio, curatore/scrittore, presenterà il Festival "San Salvario Poesia"
- Mario Casanova, direttore del Centro di Arte Contemporanea di Bellinzona, Biografia Mario Casanova , CACT Centro d'Arte Contemporanea Ticino
- Paolo Facelli, direttore di Ars Captiva e presidente di NEKS
- Silvio Valpreda, artista/scrittore/curatore con una discussione sul rapporto tra arte ed azione politica.
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Silvio Valpreda |
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Saranno anche presenti Ennio Bertrand con le sue installazioni interattive, fannidada con una nuova installazione e Valter Luca Signorile che presenterà due video dal titolo Velo#1 e Velo#2.
ecco gli interventi della giornata...
Domenico Olivero
Vorrei
condividere la mia gita alla Biennale, non come artista ma come
fruitore dell'evento artistico, dando delle indicazioni sull’evento
di quest'anno che ho appena visitato.
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Arsenale, Palazzo Enciclopedico, foto D. Olivero | |
La
Biennale è una cosa mastodontica, per il panorama italiano, partendo
da una considerazione puramente economica, l'edizione di quest'anno
ha avuto un badget di 1.800.000 eu, anche se confrontandola con
Documenta dell'anno scorso, che ne ha avuti 23.000.000 di eu,è molto
più piccola.
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Arsenale, Paweł Althamer, foto D. Olivero |
Dico
questo perché voglio subito cercare delle ragioni sull'allestimento
e la scelta dell’evento.
Posso
dire che è una Biennale molto bella, che mette in risalto certi
percorsi anche se sotto nasconde delle strategie, che appunto mi
lasciano un po' perplesso.
Capisco
che con quel budget costruire una Biennale di grande prestigio
internazionale non sia facile. Ma facendo una scelta “originale”
si è potuto realizzare un evento enfatico dove si nota un ottimo
lavoro di allestimento e di curatela, forse un poco meno pregnante
per le opere proposte.
Mi
sono posto una domanda, perché fra tutti gli artisti che ci sono nel
mondo, si va a scegliere dei "marginali" che con l'arte non
c'entrano nulla?
Lo
si capisce forse pensando che alla Biennale comunque, come ha
dichiarato Gioni, si vuole presentare un qualcosa che non si sia
ancora visto. Peccato che se approfondiamo di più scopriamo che
questi personaggi proposti, a parte una ventina che conosciamo tutti,
i soliti Cuoghi, Dean, Condo …, molti degli altri artisti
“secondari” sono comunque già presenti in collezioni private
americane e altri già strutturati ed archiviati in gallerie, visti
poi ad ArtBasel.
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Arsenale, Roberto Cuoghi, foto D. Olivero |
La
Biennale in sé è comunque un bellissimo evento per la possibilità
di avere dei confronti, fra i tanti, il parallelo che propongo v’è
quello tra la collezione della Fondazione Prada con la mostra
"Future Generation Art Prize", due eventi collaterali.
La
mitica mostra “When attitudes became form” viene riproposta, pari
pari, dalla Fondazione Prada, si tratta di una mostra del '69, che ha
messo in discussione un po' tutto il sistema dell'arte, peccato che
poi tutti i personaggi che hanno partecipato alla mostra, in una
chiave molto rivoluzionari, siano diventati dei personaggi essi
stessi oggi molto omologati e “borghesi”.
La
mostra " Future Generation Art Prize " proposta dalla
Victor Pinchuk Foundation (vi consiglio di visitarla per prima) è un
esempio della finzione dell’arte. Le opere esposte sembrano le
copie di quelle alla Fondazione Prada, troppo simili per stile,
questo ci dovrebbe fare riflettere, perché questi giovani sono
promossi, da alcuni dei curatori più importanti, come le “nuove
generazioni” dell'arte. Un giovane che pare già troppo vecchio.
La
mostra della Collezione Prada con quella di Future Art Prize sono
praticamente una riflessione sull'estetica, in un divario di
quarantenni, pare non esser successo nulla, esse sono monotonia alla
stato puro, spesso anche “brutta”. Importante notare come
entrambe le mostre sono fatte in questi palazzi talmente belli,
perché Venezia è bellezza allo stato enfatico, e questo, in certi
casi, influisce tantissimo sulla percezione dei lavori proposti.
Altro
stimolo: perché ci presentano ad una mostra di arti visive
contemporanea delle figure che si muovono in modo compulsivo, che io
non ritengo delle opere d'arte, ma in realtà sono dei bisogni intimi
personali che non sono iscrivibili all’idea di arte.
Nel
complesso sono state presentati degli oggetti di persone che hanno
delle patologie, delle complessità, psichiche, ma non solo, che
producono non per un bisogno di riflessione/condivisione ma per un
bisogno di produzione/scarica (emotiva)...
In
questa Biennale sono state presentate delle “opere” di artisti
con delle "disabilità", e mi chiedo quante di queste
persone producono un oggetto consapevoli di fare un oggetto visivo,
realizzato per essere esposto pubblicamente, o solo per il "bisogno"
di fare un oggetto.
Questi
oggetti nascono da una necessità diversa da quella con cui si
realizza un’opera di arte visiva.
Per
realizzare un’opera, un’artista fa un certo percorso, ha bisogno
di trasformare un suo pensiero in manufatto e poi decido di renderlo
pubblico, quindi è una strada molto diversa rispetto a chi sente il
bisogno di fare sempre una cosa e la ripete, senza ponderarne il suo
senso “pubblico”. Qui nella Biennale si vede molto questo
tipologia di “lavoro”.
Criticità
di questa Biennale. Esteticamente è molto bella, l'allestimento è
molto pulito, soprattutto nell'Arsenale, molto belle le didascalie,
aleggia un complesso atteggiamento educativo/mitigatore all'arte.
L'arte però non è solo educazione, è un gesto emotivo, una
emozione introiettata in una riflessione, che diventa oggetto fisico,
reale e presente nella cultura del suo tempo, che non dovrebbe
necessitare di una spiegazione e di un ordinamento che ne spenga
l’intensità.
Esempio
storico la mostra di Manet, a Palazzo Ducale, dove i lavori, non
hanno bisogno di apparati, di testi per comprendere. Guardando
l’opera si ha già tutto, è un’opera di arti visive. Poi se uno
vorrà sapere di più potrà farlo, ma essa vive autonomamente.
Quest'anno
il Leone d'oro come migliore artista è stato assegnato a Tino
Sehgal, fortemente legato ad alcuni della giuria che l’ha votato,
che secondo me fa del teatro e non dell'arte visiva, che può anche
starci per dei suoi percorsi, ma che è un po' “fuori gioco”.
Personalmente
della Biennale, le mostre che mi sono piaciute di più sono quelle
del Padiglione Irlanda, della Santa Sede, del Kuwait, i padiglioni
laterali perché c'era una correttezza di qualità, ovvero qualità
nel tema, nell'esposizione, nel manufatto, che in altre mostre non ho
trovato.
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Arsenale, Santa Sede, foto D. Olivero |
Punta
della Dogana la si può risparmiare perché le mostre che ci sono lì
sicuramente le possiamo rivedere altrove, quindi non merita
approfondire, a vantaggio invece di Palazzo Grassi con Rudolf
Stingel, artista di Merano, con un allestimento totalmente enfatico
che è un'esperienza da vivere nella sua globalità, forse un poco
meno nei singoli quadri.
Un
altro confronto il padiglione del Kuwait e quello dell'Angola
(vincitore del leone d’oro) sono molto interessanti. Vorrei capire
perché hanno dato il premio all'Angola, invece che al Kuwait, un
paese islamico, in cui si parla di immagine, immagine della
figurazione, che in realtà non è vietata dalla cultura islamica
però è limitata per un brano del Corano dove dice che se tu crei
un'immagine tu ne sei proprietario ed Allah ti chiederà perché hai
fatto quell'immagine e ne sei responsabile se essa produrrà dei
danni; per cui la cultura islamica evita la produzione di immagini,
in particolare della figura umana, quindi sarebbe stato più
apprezzabile dare il Leone d'Oro al Kuwait con un artista che ha
scelto di fare tutto un discorso su un'immagine, piuttosto che
l'Angola che porta un lavoro già iniziato l'anno scorso per la
biennale dell'architettura, ripetendo una ricerca un po' pedestre,
enfatizzando degli oggetti-scultura, seguendo un gusto imposto da un
certo “mercato dell’arte” che guarda più al facilità del
“vuoto” che alla complessità della ricerca.
Queste sono tutte
considerazioni che vi butto lì, come stimolo di riflessione.
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Foto D. Olivero |
Per
concludere volevo solo ricordare che la Biennale è nata come un
evento promozionale per la città di Venezia, per far muovere la
città economicamente, nasce come una manifestazione per creare
flusso di turismo nella città. Una Biennale delle arti visive che
doveva parlare di contemporaneità, del presente.
Rimprovero
a Gioni, un ottimo professionista del sistema dell'arte, di aver
giocato la carta del “marginale”, forse dovuta al badget, costi di
produzione/spostamento/assicurazione più ridotti.
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Foto D. Olivero |
Ha
fatto la "furbata" di raccogliere dei manufatti originali,
li presenta come fossero una novità. Ma l'art brut è un percorso
che c'è già stato, storicizzato, analizzata, torno quindi alla
domanda iniziale, perché con tanti contemporanei bravi artisti,
abbia dovuto proporre figure “artistiche” marginali, di cui molti
già morti, se la biennale è un evento contemporaneo, non si doveva
tentare di dare spazio alle novità, alla freschezza?
Lucia Polano
Mi ricollego al discorso che si faceva dell'Art Brut, "outsider", arte per disabili. Io lavoro sul campo, faccio l'educatrice da molti anni e, solo animata dalla mia passione personale, non legittimata da nessun status di artista, mi sono dedicata a fare dell'attività creativa con persone con disabilità mentale.
Volevo parlare di una mia esperienza recente, si tratta dell’esposizione di una serie di installazioni create durante alcuni laboratori fatti con i centri per disabili del Consorzio Socioassistenziale del Cuneese; 8 centri che hanno lavorato insieme su di una tematica comune.
L’esperienza che presento mi serve solo da spunto per proporre una riflessione sul fatto che ci possa essere o meno un reale rapporto tra il mondo dell’arte e quello del disagio sociale.
In questa occasione non parlo tanto di artisti "outsider", artisti inconsapevoli, presentati al pubblico senza una loro intenzione ma che manifestano un’identità artistica personale.
Su di una cinquantina di ragazzi con cui ho lavorato posso considere un artista di quel tipo soltanto uno: fa un attività grafica di tipo compulsivo, anche altri lo fanno, ma lui ha anche una produzione quantitativamente significativa che, nel suo insieme comunica delle cose interessanti.
Il mio intento è principalmente quello di stimolare la creatività fornendo alle persone con disabilità diversi tipi di imput allo scopo di far emergere i propri mondi personali che, benchè spesso abbiano modalità di espressione infantile, sono abbastanza particolari.
Alcune volte il tentativo è quello di far uscire le persone da rigide stereotipie per far emergere delle potenzialità comunicative, altre volte entra in gioco la possibilità di stimolare delle abilità cognitive oppure di tipo relazionale (come quando si fa un lavoro collettivo).
L’altro scopo è quello di far vivere un momento di benessere e gratificazione attraverso l’espressione individuale, qualcosa che si avvicina ad alcune finalità dell’arte terapia, anche se io non propongo percorsi di arte terapia propriamente detti.
Non sempre questa attività creativa ha un esito espositivo ma nell’esperienza che vi presento l’intento è stato fin da subito quello di cerare un evento pubblico.
Nel momento in cui ti esponi ad un pubblico ovviamente c'è tutto il lavoro da parte dell'operatore che deve fare da mediatore, è su questo aspetto che entrano in gioco varie questioni su cui sarebbe interessante fare delle riflessioni.
Questo evento in particolare era partito dall’ente pubblico da cui dipendono i servizi per disabili, ossia il Consorzio Socioassistenziale del Cuneese con l’intento di creare sinergie, far lavorare insieme operatori e utenti dei vari servizi da esso gestiti in maniera diretta o indiretta (come quello in cui lavoro io)
Io come riferimento personale ho "Arte plurale" un'esperienza di Torino, che opera da più di vent'anni e che ha visto la collaborazione di moltissimi artisti, ma che ad esempio a Cuneo, non è per niente conosciuta soprattutto dagli amministratori pubblici.
Anche solo l'idea di coinvolgere degli artisti, in un percorso di questo tipo non esiste ancora, come possibilità, in questo evento non ci sono gli artisti, ci sono solo degli operatori che possono avere fatto un percorso artistico, come me ad alcuni altri, e anche questo è un discorso di cui tenere conto.
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Foto Stefano Venezia |
Nell'ambito di questo progetto, che si chiama "E arte sia" ed è alla sua quinta edizione, ogni anno c'era un centro che faceva da "pilota" e quest'anno è stato il turno del centro dove lavoro io, e allora abbiamo pensato di fare un evento pubblico e di sviluppare il tema "Visibilità/Invisibilità" a partire dalle sollecitazioni delle situazioni economiche attuali, cioè la crisi economica, il taglio sui fondi per il sociale, la difficoltà ad avere pagamenti con enti pubblici, etc, il fatto cioè di sentirsi un po' invisibili nei confronti degli amministratori.
L'evento si è svolto nei giardini Fresia di Cuneo dove si svolge già da alcuni anni ZooArt una manifestazione di arte contemporanea, quindi abbiamo utilizzato uno spazio già "deputato all'arte" ed abbiamo proposto installazioni diverse ispirate anche alle caratteristiche del luogo. Gli operatori hanno pensato a dei progetti incentrati sul tema della visibilità/invisibilità che poi hanno proposto ai "ragazzi" dei vari servizi, ovviamente tenendo conto delle loro singole predisposizioni e capacità.
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"Piccoli mondi nascosti" Foto Stefano Venezia |
Propongo solo alcuni esempi tipo: "Piccoli mondi nascosti", dove all’interno di vecchi bauli ed armadietti abbiamo nascosto disegni creati liberamente dai ragazzi dei diversi centri (alcuni dei quali come produzione spontanea) poi all'inaugurazione abbiamo aperto questi contenitori aprendo una piccola breccia sul loro mondo interiore.
Un altro centro ha utilizzato, come mezzo per rappresentare il concetto di Visibile/Invisibile alcune panchine dipinte con colori vivaci, contrapposte ad altre realizzate con semplici cassette della frutta e quasi mimetizzate nell’ambiente, il lavoro era intitolato "Panck-Punk".
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Foto Stefano Venezia |
Poi sempre sul tema del Visibile/Invisibile abbiamo pensato al concetto di "trasparenza" ed abbiamo quindi realizzato più di 400 elementi fatti con appendini delle lavanderie e bottiglie di plastica tagliate e pinzate in modo da creare composizioni tutte diverse, montati in una trentina di mobiles ed appesi alla base di un grande cedro del Libano che troneggia nel parco; in questo lavoro volevamo creare l’effetto di un’ambientazione un po’ magica, una sorta di scenario, dove l'elemento singolo non rappresentava nulla mentre l'insieme di tutti gli elementi creava un certo impatto visivo.
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"Lo zampino di Santina" Foto Stefano Venezia |
In un altro lavoro, dal titolo "Lo zampino di Santina" , ad una ragazza che lavora molto bene a maglia abbiamo suggerito di coprire con dei piccoli "cappucci" alcune parti disseminate del parco, come delle panchine, dei sassi, e in particolare la punta della baionetta della statua dell'alpino. Anche altri lavori avevano come tema una sorta di caccia al tesoro, dove piccoli elementi nascosti dovevano essere rintracciati nel parco.
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"Lo zampino di Santina" Foto Stefano Venezia |
Cito ancora altri due lavori: “ BN/RGB tavolo multistrato” è un tavolo sul quale sono state applicate delle fotografie in bianco e nero di vari momenti della vita e dell’ambiente dei centri che hanno partecipato all’iniziativa; al di sopra erano posizionati dei quadratini di legno di tutti i colori che si potevano spostare creando composizioni sempre diverse e che parzialmente coprivano le immagini sottostanti, per cui per potere vedere quest’ultime bisognava spostare i quadratini, andando così a nascondere altre immagini. Il concetto era quello che non è mai possibile cogliere la realtà nella sua complessità (in questo caso ci si riferiva ovviamente alla realtà dei servizi per disabili) e che nel momento in cui ci si focalizza su di un particolare, altri aspetti inevitabilmente ci sfuggono.
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BN/RGB tavolo multistrato. Foto Stefano Venezia |
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"Metropittura collettiva" Foto Stefano Venezia |
Un altro lavoro è la “Metropittura collettiva”, realizzato alcuni anni fa per mia iniziativa solo nel mio centro ma che ha coinvolto anche tutti gli altri servizi del Consozio, per cui ho pensato di riproporlo in questa occasione. Ispirato in parte alla esperienza dell’Action Painting e in parte alla pittura industriale di Pinot Gallizio (spunti sui quali avevamo lavorato a lungo in precedenza), abbiamo ricoperto di segni e macchie colorate una tela di circa 5 metri poi, una volta asciutta, ognuno era invitato ad isolare una piccola parte della tela, che gli sembrava particolarmente significativa, con una cornice quadrangolare, la parte scelta veniva tagliata e portata a casa. All’esposizione si vedeva solo il residuo di questa tela con i buchi lasciati dalle parti ritagliate ed ormai diventate “invisibili”, oltre che una documentazione fotografica del percorso.
In conclusione, come si può immaginare, alcuni lavori avevano l’intento di valorizzare l’attività creativa spontanea delle persone, altri invece sono stati progettati essenzialmente dagli operatori, mentre i ragazzi hanno partecipato alla realizzazione, sempre con molto entusiasmo, ma con diversi gradi di consapevolezza. Tutti erano coscienti che si trattava di un’esposizione pubblica ed erano stati portati a conoscenza del luogo e del contesto della manifestazione ma non tutti erano in grado di comprendere alcuni messaggi che si intendevano veicolare attraverso le opere (parlo soprattutto del “tavolo multistrato” dove gli utenti sono stati soprattutto “oggetti” più che “soggetti” dell’installazione).
Abbiamo fatto questa scelta in considerazione della valenza pubblica della manifestazione; non volevamo limitarci ad una esposizione di “lavoretti” ma abbiamo voluto lanciare dei messaggi .
Non volevamo tanto mostrare quanto i ragazzi disabili fossero “bravi” o come anche le loro opere “possano essere belle ed apprezzabili quanto quelle di tanti artisti che si vedono nelle mostre”. (metto questa frase tra virgolette perché è un espressione che ho sentito diverse volte). Volevamo utilizzare dei mezzi visivi ed il lavoro creativo degli utenti per richiamare l’attenzione, in modo leggero e giocoso, come è nella natura del nostro approccio educativo, su una realtà specifica del territorio.
E’ chiaro che il lavoro dei ragazzi non risponde di per sè ai criteri ed ai canoni di un’operazione artistica: manca la consapevolezza dei propri mezzi, manca la perizia tecnica, manca la capacità di elaborare un percorso di ricerca (anche se a volte alcune di queste cose, molto in embrione, ci sono e c’è anche, talvolta, una certa intenzionalità comunicativa) .
Spesso l”accettabilità” formale di questi lavori risiede nella perizia dell’allestimento, che in molti casi è fatto da persone esperte.
Anche noi operatori che abbiamo lavorato ad un evento del genere non siamo artisti perché non ne abbiamo lo status.
Ma allora in una manifestazione come “Visibili/invisibili”, si può rintracciare qualcosa di veramente “artistico” e non semplicemente di “socialmente visuale”?
La presenza di artisti “veri”, di professionisti del mondo dell’arte, avrebbe potuto portare un valore aggiunto ad un evento del genere?
Io penso di sì, per molti motivi, e spero che in futuro l’amministrazione pubblica possa essere sensibilizzata a tale eventualità, però mi piacerebbe sentire anche altre risposte e riflessioni su questa questione, che può anche porsi come provocazione in un momento come quello odierno dove spesso è difficile stabilire con certezza il confine tra ciò che è arte e ciò che non lo è, al di là della legittimazione esterna da parte del cosiddetto sistema dell’arte.
Concludo puntualizzando che la manifestazione è stata realizzata avendo un budget a disposizione equivalente a 0 (zero) , tutte le spese sostenute (materiali, locandine, personale) rientravano nella gestione corrente ed i materiali erano per l’80% di recupero.
Marina Buratti
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Foto M. Buratti
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Sono
venuta per presentarvi una fase del mio lavoro che oggi ritengo
conclusa e che ha avuto la durata di circa 10 anni, dal 2001-02 al
2010. Ho parlato di questo mio percorso a Bologna al Dams a cura di
Stefano Ferrari, in due occasioni: nel 2010 e nel 2013.
Ho prodotto
quest'anno anche un manoscritto che sta per essere pubblicato nella
sezione Quaderni della rivista PsicoArt, a cura della sezione
bolognese di Psicologia dell’Arte dell'Università. Quello che ho
messo in atto è un percorso che oggi posso definire di
fotografia-terapeutica, in un momento in cui non conoscevo
l'esistenza dell'uso della fotografia in terapia psicoanalitica. A un
certo punto della mia vita si sono evidenziati alcuni disturbi
psichici con manifestazioni psicosomatiche che poi si sono legati a
problemi di altro tipo. In modo inconsapevole ho iniziato ad
elaborare una mia foto di quando ero bambina, risalente alla metà
degli anni '60. Da questa foto sono nate più di 50 opere. Solo nel
momento in cui l'ho mostrato, ho compreso il valore di questo lavoro
che peraltro è decisamente perturbante.
Come artista mi definisco un' eclettica; sperimento diverse tecniche
a partire dalla pittura e dalla grafica. La mia prima mostra
personale di una certa importanza è stata quella alla galleria
"Triangolo nero" di Alessandria, uno spazio rigoroso, dove
avevo presentato una serie di carte nel 1999. La mostra era
intitolata "Inhumare-Exhumare" . A partire da quel periodo
ho iniziato questo lavoro sulla mia immagine fotografica che ho
mostrato al pubblico solo dopo qualche anno. In questa serie di opere
posso rintracciare una fase della mia attività che mi ha visto
ricostruire la mia identità di artista di cui forse io non ero
pienamente consapevole. L'immagine che ho elaborato e che io
riconosco come il ritratto che meglio mi rappresenta è tratta da una
foto di famiglia nella quale compaio con i miei genitori e mio
fratello. Qui posso ricordare Roland Barthes, che nel testo "La
camera chiara", parla dell’album fotografico della madre e in
particolare di una foto di lei da bambina che egli ritiene essere
l’unica foto che ne racconta la vera essenza. Forse io ho messo in
atto lo stesso procedimento e attraverso dei ritagli ho isolato la
mia immagine dal contesto originario.
Sono nati così diversi
lavori, soprattutto collage, ma non solo, infatti la foto è stata ad
esempio ingrandita, riprodotta su vari supporti, ad esempio
l’alluminio, ma ho lavorato anche usando fotocopie, e svariate
tecniche come pastelli, etc.
Certamente
si tratta di un lavoro molto intimo, fortemente introspettivo, del
quale ancora non riesco a parlare in tutta serenità e che ha avuto
senza dubbio un forte valore terapeutico contribuendo a definire ciò
che sono oggi.
Mario Casanova direttore del Centro di Arte Contemporanea di Bellinzona, Biografia Mario Casanova , CACT Centro d'Arte Contemporanea Ticino
Ci ha portato alcune pubblicazioni del CACT, Centro d'Arte Contemporanea Ticino,
parlandoci della situazione dell'Arte in Svizzera.
Paolo Facelli
Non sono né un critico, né un
curatore ma un gestore di eventi artistici e l’argomento che vorrei
sinteticamente affrontare riguarda l’emergenza dei budget alla
cultura delle Istituzioni pubbliche destinati principalmente alle
piccole-medie realtà associative, veri motori della crescita civile
di una popolazione.
Fin’ora è stata esposta la
situazione della Svizzera, ora provo a sintetizzare la situazione
italiana per terminare con lo specifico piemontese. Un giorno un
ministro disse che “con la
cultura non si mangia” e
credo nessun’altra affermazione sia così falsa e irresponsabile.
Dietro una nazione che possiede una quota immensa del patrimonio
artistico mondiale ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro,
una produzione di ricchezza esponenziale, un indotto gigantesco.
Chiedetevi perché attualmente oltre 20 città italiane, dal sud al
nord, si stanno battendo, una contro l’altra, per la candidatura
europea a Capitale della
cultura per il 2019.
Disperante è invece la politica
culturale del territorio piemontese, una regione che, fino a pochi
anni fa, rappresentava un faro e l’esempio esportabile di tutte le
politiche culturali italiane. Personalmente lavoro con gli enti
pubblici sin dal 1998 e ricordo l’interesse pubblico straordinario
per i benie per le attività culturali. Da quell’anno ad oggi la
situazione è radicalmente cambiata, in peggio!
Le risorse regionali sono ridotte al
lumicino e, solo grazie alla sensibilità ed intelligenza della
Commissione Cultura del Consiglio che si è pronunciata in termini
politicamente bipartisan, si sta tentando di fermare un declino degli
investimenti che prevedeva addirittura l’azzeramento dei fondi. Nel
2009 c'erano ancora 130 milioni di euro, si è passati, nel 2011, a
59 milioni, nel 2012 a 49 milioni e ora nel 2013 dovremo confermare i
49, una linea del Piave
sotto cui non si potrà mai scendere senza firmare la condanna a
morte non solo delle realtà piccole e medie ma anche di tutte le
grandi istituzioni culturali.
Ma se la politica regionale in qualche
modo “eredita” un’impostazione metodologica di Giampiero Leo,
l’Assessore alla cultura nella giunte Ghigo e voglio ricordare non
solo le grandi realizzazioni come il Museo del Cinema o la Reggia di
Venaria ma tutto il sistema che ora conosciamo delle eccellenze
culturali piemontesi, ben diversa è l’impostazione della Città di
Torino. Se in Regione era stata creata una classe di persone che
lavoravano “dal basso”con grande autonomia e, allo stesso tempo,
coinvolgendo tutto l’arco costituzionale, l’impostazione del
Comune, linea confermata anche da Fassino e da Braccialarghe, è
radicalmente diversa. La cultura della città obbedisce ad una logica
personalistica, verticistica ed autoreferenziale, vale a dire
l'Assessore disegna in proprio e in prima persona l’offerta
culturale. Se, infine, questa impostazione si accompagna ad un
abbattimento dei fondi comunali dedicati, lascio a voi immaginare
l’impoverimento dell’offerta ai cittadini.
Tornando alla situazione regionale
vorrei nuovamente rimarcare l’azione della “ridotta”,
dell’ultimo baluardo rappresentato dalla Commissione Cultura della
Regione Piemonte, composta da consiglieri regionali che, come
rappresentanti di tutto l'arco costituzionale, hanno chiesto ed
ottenuto di poter dare parere vincolante su tutte le materie
provenienti dalla Giunta. Moltissimi sono stati gli incontri
organizzati tra gli operatori del settore con questi consiglieri, al
fine di recepire le nostre esigenze e tradurle in azioni concrete.
Soluzioni comuni e condivise che possano rapidamente portare alla
creazione di politiche culturali innovative ed efficaci. Si varerà
presto il percorso degli Stati
Generali della Cultura,
riproponendo il territorio piemontese come esempio virtuoso.
Oggi molti criteri, alla base delle
scelte dell’Assessorato, risultano quantomeno incomprensibili.
Quale “ratio”, ad esempio, giustifica l’eliminazione dalla
lista delle associazioni che beneficiano di una contribuzione, di
quelle realtà che, l’anno precedente, hanno ricevuto un contributo
minore di 5.000 euro? Oppure, perchè nessuna associazione può
presentare più di un progetto all'anno? Ma se un Ente propone
progetti di qualità, non dico dieci ma un paio in un anno, perché
mai non doverli prendere in considerazione?
Forse che la logica sta tutta
nell’azzeramento delle realtà associative? Nel 2010, solo nelle
arti visive, vi erano 250 associazioni che ottenevano dei
finanziamenti, nel 2012 ne sono rimaste 40!
Termino l’intervento ribadendo che
questa battaglia è assolutamente bipartisan. Questa drastica
riduzione che voglio pensare volesse immaginare una sorta di
selezione qualitativa, sta ormai travalicando il lecito e sta
mettendo in serissima difficoltà delle realtà che contribuiscono
all’economia ed al lavoro. Molte di queste oramai sono state uccise
e non si riavranno più.
Facciamo in modo che non tutto il comparto
venga sterminato.
Silvio Valpreda
Volevo
prendere spunto raccontandovi di due mie recenti esperienze: una
fiera e un mio esperimento, e da quello provare a lanciare delle
domande sul ruolo dell'artista, su cosa deve fare l'artista, cioè
sul ruolo sociale dell'artista.
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Evento "Linguaggi" alla Galleria Oblom |
Parto
da questo "esperimento" che è stato fatto alla Galleria
Oblom di Fabrizio Bonci, dove abbiamo fatto un incontro, che abbiamo
intitolato "Linguaggi", che è nato da una mia idea ma che
si è poi strutturata sul momento. Si è trattato di una serata nella
quale ho invitato degli artisti (oltre a me c'erano i fannidada e
Dario Neira) e degli scrittori, un romanziere, Saverio Fattori e un
giornalista-saggista, Federico Faloppa. Abbiamo provato a discutere
partendo dai rispettivi strumenti d'indagine cioè per gli artisti le
opere di arte visiva, per il romanziere raccontare una storia, più o
meno di invenzione e per il saggista il raccogliere dei fatti. Questa
esperienza, che si è svolta all'interno degli eventi off del Salone
del Libro, è risultata molto interessante come metodo di ricerca e
di approfondimento
In
particolare vorrei porre attenzione sui commenti che sono seguiti
dopo l'incontro, in particolare lo scrittore Faloppa lo ha definito
un “buon esperimento di arte militante". Per arte
militante io intendo il fatto che abbiamo parlato di temi sociali
attraverso una ricerca che parte dagli aspetti più poetici delle
arti visive.
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Foto S. Valpreda |
Questo
si ricollega al lavoro che ho portato qui, che sono delle opere che
fanno parte di un mio ultimo progetto iniziato l'anno scorso con la
mostra in Danimarca e che sto proseguendo ora
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Foto S. Valpreda |
Sono
andato a lavorare sulla mia esperienza personale che è quella di
aver creduto di poter, almeno da giovane, cambiare il mondo, in
piccoli modi con piccoli gesti, senza propriamente fare la
rivoluzione, avere un certo impatto positivo verso il mondo. Adesso
mi rendo conto che sia io, che i miei amici coetanei, ci troviamo più
a ripiegarci verso uno nostro privato più o meno buono e protetto
che io ho simboleggiato in queste mio opere, con il contrasto tra
l'esterno dove ho inserito delle parole che ho preso a caso dal sito
del New York Times in un giorno qualsiasi, parole che ci arrivano
dall'esterno e che in un momento passato mi avrebbero stimolato a
cambiare le cose, mentre ora mi portano a rifugiarmi all'interno
della mia casa, ripiegandomi verso un privato più o meno metaforico.
L'altra
mi esperienza di cui volevo parlare, si riferisce all'esperienza di
circa una settimana fa in Olanda, per un evento HUNTENKUNST che dalla
traduzione dall'olandese possiamo chiamare "A caccia di artisti"
e che si definisce International Podium for Artists. Podio, mostra di
artisti, questo evento si presenta come una fiera dove, previa
selezione, gli artisti hanno a loro disposizione uno spazio di 4
metrequadrati, dove possono presentare le proprie opere. Per me è
stata la terza volta nella quale ho partecipato, dopo una pausa di
alcuni anni. Ho potuto constatare un cambiamento nel tempo, c'è
stata una fortissima diminuzione, tra gli artisti presenti, a
proporre un'arte politica, o che comunque volesse comunicare qualcosa
o fare una ricerca. Ho visto invece artisti che si preoccupavano solo
dell'aspetto estetico, cioè di fare delle belle opere, delle opere
ben fatte.
Ogni
anno, in occasione di questa fiera viene ospitato un paese, e
quest'anno è stato il turno della Lituania, e di tutti i 200 artisti
invitati, circa 20 erano lituani.
All'interno
di questa fiera c'è stata una discussione tra i diversi artisti, e
da questa discussione è emerso che per molti la differenza tra ciò
che è arte e ciò che non lo è si concretizza con la perizia
tecnica con la quale è fatta un'opera.
Vorrei
aprire a questo punto un dibattito, una riflessione sul rapporto tra
arte militante ed arte estetica o estetizzante.
.... e momenti di pausa!