lunedì 15 luglio 2013

Davanti a un fiume in piena #3
9 giugno 2013

domenica 9 giugno dalle ore 11 alle ore 18 
nel nostro studio di Piazza Carducci 130 (citofono n. 1) a Torino

si terrà il terzo incontro/confronto sull'arte "Davanti a un fiume in piena".

Gli ospiti che interverrano in questo incontro sono, in mattinata:
  • Domenico Olivero, (Cuneo)presenterà una panoramica sulla Biennale di Venezia 2013
  • Alessandro Quaranta, artista ci parlerà del suo lavoro,
  • Lucia Polano, (Cuneo) artista con un intervento sul ruolo dell'arte e dell'artista nel mondo del disagio e del sociale.  
Dopo una pausa pranzo comunitaria serguiranno nel pomeriggio:
  • Marina Buratti, (Alessandria) con un intervento dal titolo "Ritagli d'identità"
    Marina Buratti
  • Ivan Fassio, curatore/scrittore, presenterà il Festival "San Salvario Poesia"
  • Mario Casanova, direttore del Centro di Arte Contemporanea di Bellinzona, Biografia Mario Casanova , CACT Centro d'Arte Contemporanea Ticino
  • Paolo Facelli, direttore di Ars Captiva e presidente di NEKS
  • Silvio Valpreda, artista/scrittore/curatore con una discussione sul rapporto tra arte ed azione politica.
    Silvio Valpreda
Saranno anche presenti Ennio Bertrand con le sue installazioni interattive, fannidada con una nuova installazione e Valter Luca Signorile che presenterà due video dal titolo Velo#1 e Velo#2.

ecco gli interventi della giornata...

Domenico Olivero


Vorrei condividere la mia gita alla Biennale, non come artista ma come fruitore dell'evento artistico, dando delle indicazioni sull’evento di quest'anno che ho appena visitato.

Arsenale, Palazzo Enciclopedico, foto D. Olivero



La Biennale è una cosa mastodontica, per il panorama italiano, partendo da una considerazione puramente economica, l'edizione di quest'anno ha avuto un badget di 1.800.000 eu, anche se confrontandola con Documenta dell'anno scorso, che ne ha avuti 23.000.000 di eu,è molto più piccola.



Arsenale, Paweł Althamer, foto D. Olivero

Dico questo perché voglio subito cercare delle ragioni sull'allestimento e la scelta dell’evento.

Posso dire che è una Biennale molto bella, che mette in risalto certi percorsi anche se sotto nasconde delle strategie, che appunto mi lasciano un po' perplesso.


Capisco che con quel budget costruire una Biennale di grande prestigio internazionale non sia facile. Ma facendo una scelta “originale” si è potuto realizzare un evento enfatico dove si nota un ottimo lavoro di allestimento e di curatela, forse un poco meno pregnante per le opere proposte. 



Mi sono posto una domanda, perché fra tutti gli artisti che ci sono nel mondo, si va a scegliere dei "marginali" che con l'arte non c'entrano nulla?



Lo si capisce forse pensando che alla Biennale comunque, come ha dichiarato Gioni, si vuole presentare un qualcosa che non si sia ancora visto. Peccato che se approfondiamo di più scopriamo che questi personaggi proposti, a parte una ventina che conosciamo tutti, i soliti Cuoghi, Dean, Condo …, molti degli altri artisti “secondari” sono comunque già presenti in collezioni private americane e altri già strutturati ed archiviati in gallerie, visti poi ad ArtBasel. 

Arsenale, Roberto Cuoghi, foto D. Olivero


La Biennale in sé è comunque un bellissimo evento per la possibilità di avere dei confronti, fra i tanti, il parallelo che propongo v’è quello tra la collezione della Fondazione Prada con la mostra "Future Generation Art Prize", due eventi collaterali.

La mitica mostra “When attitudes became form” viene riproposta, pari pari, dalla Fondazione Prada, si tratta di una mostra del '69, che ha messo in discussione un po' tutto il sistema dell'arte, peccato che poi tutti i personaggi che hanno partecipato alla mostra, in una chiave molto rivoluzionari, siano diventati dei personaggi essi stessi oggi molto omologati e “borghesi”.



La mostra " Future Generation Art Prize " proposta dalla Victor Pinchuk Foundation (vi consiglio di visitarla per prima) è un esempio della finzione dell’arte. Le opere esposte sembrano le copie di quelle alla Fondazione Prada, troppo simili per stile, questo ci dovrebbe fare riflettere, perché questi giovani sono promossi, da alcuni dei curatori più importanti, come le “nuove generazioni” dell'arte. Un giovane che pare già troppo vecchio.


La mostra della Collezione Prada con quella di Future Art Prize sono praticamente una riflessione sull'estetica, in un divario di quarantenni, pare non esser successo nulla, esse sono monotonia alla stato puro, spesso anche “brutta”. Importante notare come entrambe le mostre sono fatte in questi palazzi talmente belli, perché Venezia è bellezza allo stato enfatico, e questo, in certi casi, influisce tantissimo sulla percezione dei lavori proposti.



Altro stimolo: perché ci presentano ad una mostra di arti visive contemporanea delle figure che si muovono in modo compulsivo, che io non ritengo delle opere d'arte, ma in realtà sono dei bisogni intimi personali che non sono iscrivibili all’idea di arte.

Nel complesso sono state presentati degli oggetti di persone che hanno delle patologie, delle complessità, psichiche, ma non solo, che producono non per un bisogno di riflessione/condivisione ma per un bisogno di produzione/scarica (emotiva)...



In questa Biennale sono state presentate delle “opere” di artisti con delle "disabilità", e mi chiedo quante di queste persone producono un oggetto consapevoli di fare un oggetto visivo, realizzato per essere esposto pubblicamente, o solo per il "bisogno" di fare un oggetto.


Questi oggetti nascono da una necessità diversa da quella con cui si realizza un’opera di arte visiva.


Per realizzare un’opera, un’artista fa un certo percorso, ha bisogno di trasformare un suo pensiero in manufatto e poi decido di renderlo pubblico, quindi è una strada molto diversa rispetto a chi sente il bisogno di fare sempre una cosa e la ripete, senza ponderarne il suo senso “pubblico”. Qui nella Biennale si vede molto questo tipologia di “lavoro”.



Criticità di questa Biennale. Esteticamente è molto bella, l'allestimento è molto pulito, soprattutto nell'Arsenale, molto belle le didascalie, aleggia un complesso atteggiamento educativo/mitigatore all'arte. L'arte però non è solo educazione, è un gesto emotivo, una emozione introiettata in una riflessione, che diventa oggetto fisico, reale e presente nella cultura del suo tempo, che non dovrebbe necessitare di una spiegazione e di un ordinamento che ne spenga l’intensità.



Esempio storico la mostra di Manet, a Palazzo Ducale, dove i lavori, non hanno bisogno di apparati, di testi per comprendere. Guardando l’opera si ha già tutto, è un’opera di arti visive. Poi se uno vorrà sapere di più potrà farlo, ma essa vive autonomamente.

Quest'anno il Leone d'oro come migliore artista è stato assegnato a Tino Sehgal, fortemente legato ad alcuni della giuria che l’ha votato, che secondo me fa del teatro e non dell'arte visiva, che può anche starci per dei suoi percorsi, ma che è un po' “fuori gioco”.

Personalmente della Biennale, le mostre che mi sono piaciute di più sono quelle del Padiglione Irlanda, della Santa Sede, del Kuwait, i padiglioni laterali perché c'era una correttezza di qualità, ovvero qualità nel tema, nell'esposizione, nel manufatto, che in altre mostre non ho trovato.

Arsenale, Santa Sede, foto D. Olivero

Punta della Dogana la si può risparmiare perché le mostre che ci sono lì sicuramente le possiamo rivedere altrove, quindi non merita approfondire, a vantaggio invece di Palazzo Grassi con Rudolf Stingel, artista di Merano, con un allestimento totalmente enfatico che è un'esperienza da vivere nella sua globalità, forse un poco meno nei singoli quadri.


Un altro confronto il padiglione del Kuwait e quello dell'Angola (vincitore del leone d’oro) sono molto interessanti. Vorrei capire perché hanno dato il premio all'Angola, invece che al Kuwait, un paese islamico, in cui si parla di immagine, immagine della figurazione, che in realtà non è vietata dalla cultura islamica però è limitata per un brano del Corano dove dice che se tu crei un'immagine tu ne sei proprietario ed Allah ti chiederà perché hai fatto quell'immagine e ne sei responsabile se essa produrrà dei danni; per cui la cultura islamica evita la produzione di immagini, in particolare della figura umana, quindi sarebbe stato più apprezzabile dare il Leone d'Oro al Kuwait con un artista che ha scelto di fare tutto un discorso su un'immagine, piuttosto che l'Angola che porta un lavoro già iniziato l'anno scorso per la biennale dell'architettura, ripetendo una ricerca un po' pedestre, enfatizzando degli oggetti-scultura, seguendo un gusto imposto da un certo “mercato dell’arte” che guarda più al facilità del “vuoto” che alla complessità della ricerca. 

Queste sono tutte considerazioni che vi butto lì, come stimolo di riflessione.

Foto D. Olivero

Per concludere volevo solo ricordare che la Biennale è nata come un evento promozionale per la città di Venezia, per far muovere la città economicamente, nasce come una manifestazione per creare flusso di turismo nella città. Una Biennale delle arti visive che doveva parlare di contemporaneità, del presente.



Rimprovero a Gioni, un ottimo professionista del sistema dell'arte, di aver giocato la carta del “marginale”, forse dovuta al badget, costi di produzione/spostamento/assicurazione più ridotti.

Foto D. Olivero

Ha fatto la "furbata" di raccogliere dei manufatti originali, li presenta come fossero una novità. Ma l'art brut è un percorso che c'è già stato, storicizzato, analizzata, torno quindi alla domanda iniziale, perché con tanti contemporanei bravi artisti, abbia dovuto proporre figure “artistiche” marginali, di cui molti già morti, se la biennale è un evento contemporaneo, non si doveva tentare di dare spazio alle novità, alla freschezza? 


Lucia Polano 
Mi ricollego al discorso che si faceva dell'Art Brut, "outsider", arte per disabili. Io lavoro sul campo, faccio l'educatrice da molti anni e, solo animata dalla mia passione personale, non legittimata da nessun status di artista, mi sono dedicata a fare dell'attività creativa con persone con disabilità mentale.
Volevo parlare di una mia esperienza recente, si tratta dell’esposizione di una serie di installazioni create durante alcuni laboratori fatti con i centri per disabili del Consorzio Socioassistenziale del Cuneese; 8 centri che hanno lavorato insieme su di una tematica comune.


L’esperienza che presento mi serve solo da spunto per proporre una riflessione sul fatto che ci possa essere o meno un reale rapporto tra il mondo dell’arte e quello del disagio sociale.
 

In questa occasione non parlo tanto di artisti  "outsider", artisti inconsapevoli, presentati al pubblico senza una loro intenzione ma che manifestano un’identità artistica personale. 
Su di una cinquantina di ragazzi con cui ho lavorato posso considere un artista di quel tipo soltanto uno: fa un attività grafica di tipo compulsivo, anche altri lo fanno, ma lui ha anche una produzione quantitativamente significativa che, nel suo insieme comunica delle cose interessanti.
Il mio intento è principalmente quello di stimolare la creatività fornendo alle persone con disabilità diversi tipi di imput allo scopo di far emergere i propri mondi personali che, benchè spesso abbiano modalità di espressione infantile,  sono abbastanza particolari.
Alcune  volte il tentativo è quello di far uscire le persone da rigide stereotipie per far emergere delle potenzialità comunicative, altre volte entra in gioco la possibilità di stimolare delle abilità cognitive oppure di tipo relazionale (come quando si fa un lavoro collettivo).


L’altro scopo è quello di far vivere un momento di benessere e gratificazione attraverso l’espressione individuale, qualcosa che si avvicina ad alcune finalità dell’arte terapia, anche se io non propongo percorsi di arte terapia propriamente detti.
Non sempre questa attività creativa ha un esito espositivo ma nell’esperienza che vi presento l’intento è stato fin da subito quello di cerare un evento pubblico.
Nel momento in cui ti esponi ad un pubblico ovviamente c'è tutto il lavoro da parte dell'operatore che deve fare da mediatore, è su questo aspetto che entrano in gioco varie questioni su cui sarebbe interessante fare delle riflessioni.
Questo evento in particolare era partito dall’ente pubblico da cui dipendono i servizi per disabili, ossia il Consorzio Socioassistenziale del Cuneese con l’intento di creare sinergie, far lavorare insieme  operatori e  utenti dei  vari servizi da esso gestiti in maniera diretta o indiretta (come quello in cui lavoro io)


Io come riferimento personale ho "Arte plurale" un'esperienza di Torino, che opera da più di vent'anni e che ha visto la collaborazione di moltissimi artisti, ma che ad esempio a Cuneo, non è per niente conosciuta soprattutto dagli amministratori pubblici.
Anche solo l'idea di coinvolgere degli artisti, in un percorso di questo tipo non esiste ancora, come possibilità, in questo evento non ci sono gli artisti, ci sono solo degli operatori che possono avere fatto un percorso artistico, come me ad alcuni altri, e anche questo è un discorso di cui tenere conto.
 


Foto Stefano Venezia

Nell'ambito di questo progetto, che si chiama "E arte sia" ed è alla sua quinta edizione, ogni anno c'era un centro che faceva da "pilota" e  quest'anno è stato il turno del centro dove lavoro io, e allora abbiamo pensato di fare un evento pubblico e di sviluppare il tema "Visibilità/Invisibilità" a partire dalle sollecitazioni delle situazioni economiche attuali, cioè la crisi economica, il taglio sui fondi per il sociale, la difficoltà ad avere pagamenti con enti pubblici, etc, il fatto cioè di sentirsi un po' invisibili nei confronti degli amministratori.
L'evento si è svolto nei giardini Fresia di Cuneo dove si svolge già da alcuni anni ZooArt una manifestazione di arte contemporanea, quindi abbiamo utilizzato uno spazio già "deputato all'arte" ed abbiamo proposto installazioni diverse ispirate anche alle caratteristiche del luogo. Gli operatori hanno pensato a dei progetti incentrati sul tema della visibilità/invisibilità che poi hanno proposto ai "ragazzi" dei vari servizi, ovviamente tenendo conto delle loro singole predisposizioni e capacità.


"Piccoli mondi nascosti" Foto Stefano Venezia
Propongo solo alcuni esempi tipo: "Piccoli mondi nascosti", dove all’interno di vecchi bauli ed armadietti abbiamo nascosto disegni creati liberamente dai ragazzi dei diversi centri (alcuni dei quali come produzione spontanea) poi all'inaugurazione abbiamo aperto questi contenitori aprendo una piccola breccia sul loro mondo interiore. 
Un altro centro ha utilizzato, come mezzo per rappresentare il concetto di Visibile/Invisibile alcune panchine dipinte con colori vivaci, contrapposte ad altre realizzate con semplici cassette della frutta e quasi mimetizzate nell’ambiente, il lavoro era intitolato "Panck-Punk".
Foto Stefano Venezia
Poi sempre sul tema del Visibile/Invisibile abbiamo pensato al concetto di  "trasparenza" ed abbiamo quindi realizzato più di 400 elementi fatti con appendini delle lavanderie e bottiglie di plastica tagliate e pinzate in modo da creare composizioni tutte diverse, montati in una trentina di mobiles ed  appesi alla base di un grande cedro del Libano che troneggia nel parco; in questo lavoro volevamo creare l’effetto di un’ambientazione un po’ magica, una sorta di scenario, dove l'elemento singolo non rappresentava nulla mentre l'insieme di tutti gli elementi creava un certo impatto visivo.

"Lo zampino di Santina" Foto Stefano Venezia


In un altro lavoro,  dal titolo "Lo zampino di Santina" , ad una ragazza che lavora molto bene a maglia  abbiamo suggerito di coprire con dei piccoli "cappucci" alcune parti disseminate del parco, come delle panchine, dei sassi, e in particolare la punta della baionetta della statua dell'alpino. Anche altri lavori avevano come tema una sorta di caccia al tesoro, dove piccoli elementi nascosti dovevano essere rintracciati nel parco. 

"Lo zampino di Santina" Foto Stefano Venezia

Cito ancora altri due lavori: “ BN/RGB tavolo multistrato”  è un tavolo sul quale sono state applicate delle fotografie in bianco e nero di vari momenti della vita e dell’ambiente dei  centri che hanno partecipato all’iniziativa; al di sopra erano posizionati dei quadratini di legno di tutti i colori che si potevano spostare creando composizioni sempre diverse e che parzialmente coprivano le  immagini sottostanti, per cui per potere vedere quest’ultime bisognava spostare i quadratini, andando così a nascondere altre immagini. Il concetto era quello che non è mai possibile cogliere la realtà nella sua complessità (in questo caso ci si riferiva ovviamente alla realtà dei servizi per disabili) e che nel momento in cui ci si focalizza su di un particolare, altri aspetti inevitabilmente ci sfuggono.

BN/RGB tavolo multistrato. Foto Stefano Venezia
"Metropittura collettiva" Foto Stefano Venezia
Un altro lavoro è la “Metropittura collettiva”, realizzato alcuni anni fa per mia iniziativa solo nel mio centro ma che ha coinvolto anche tutti gli altri servizi del Consozio, per cui ho pensato di riproporlo in questa occasione. Ispirato in parte alla esperienza dell’Action Painting e in parte alla pittura industriale di Pinot Gallizio (spunti sui quali avevamo lavorato a lungo in precedenza), abbiamo ricoperto di segni e macchie colorate una tela di circa 5 metri poi, una volta asciutta, ognuno era invitato ad isolare una piccola parte della tela, che gli sembrava particolarmente significativa, con una cornice quadrangolare, la parte scelta veniva tagliata e portata a casa. All’esposizione si vedeva solo il residuo di questa tela con i buchi lasciati dalle parti ritagliate ed ormai diventate “invisibili”, oltre che una documentazione fotografica del percorso.
In conclusione, come si può immaginare, alcuni lavori avevano l’intento di valorizzare l’attività creativa spontanea delle persone, altri invece sono stati progettati essenzialmente dagli operatori, mentre i ragazzi hanno partecipato alla realizzazione, sempre con molto entusiasmo, ma con diversi gradi di consapevolezza.  Tutti erano coscienti che si trattava di un’esposizione pubblica ed erano stati portati a conoscenza del luogo e del contesto della manifestazione ma  non tutti erano in grado di comprendere alcuni messaggi che si intendevano veicolare attraverso le opere (parlo soprattutto del “tavolo multistrato” dove gli utenti sono stati soprattutto “oggetti” più che “soggetti” dell’installazione).

Abbiamo fatto questa scelta in considerazione della valenza pubblica della manifestazione; non volevamo limitarci ad una esposizione di “lavoretti” ma abbiamo voluto lanciare dei messaggi .
Non volevamo tanto mostrare quanto i ragazzi disabili fossero “bravi” o come anche le loro opere “possano essere belle ed apprezzabili quanto quelle di tanti artisti che si vedono nelle mostre”. (metto questa frase tra virgolette perché è un espressione che ho sentito diverse volte). Volevamo utilizzare dei mezzi visivi ed il lavoro creativo degli utenti per richiamare l’attenzione, in modo leggero e giocoso, come è nella natura del nostro approccio educativo, su una realtà specifica del territorio.
E’ chiaro che il lavoro dei ragazzi non risponde di per sè ai criteri ed ai canoni di un’operazione artistica: manca la consapevolezza dei propri mezzi, manca la perizia tecnica, manca la capacità di elaborare un percorso di ricerca (anche se a volte alcune di queste cose, molto in embrione, ci sono e  c’è anche, talvolta, una certa intenzionalità comunicativa) .
Spesso l”accettabilità” formale  di questi lavori risiede nella perizia dell’allestimento, che in molti casi è fatto da persone esperte.
Anche noi operatori che abbiamo lavorato ad un evento del genere non siamo artisti perché non ne abbiamo lo status.

Ma allora in una manifestazione come “Visibili/invisibili”, si può rintracciare qualcosa di veramente “artistico” e non semplicemente di “socialmente visuale”?


La presenza di artisti “veri”, di professionisti del mondo dell’arte, avrebbe potuto portare un valore aggiunto ad un evento del genere? 

Io penso di sì, per molti motivi, e spero che in futuro l’amministrazione pubblica possa essere sensibilizzata a tale eventualità, però mi piacerebbe sentire anche altre risposte e riflessioni su questa questione, che può anche porsi come provocazione in un momento come quello odierno dove spesso è difficile stabilire con certezza il confine tra  ciò che è arte e ciò che non lo è, al di là della legittimazione esterna da parte del cosiddetto sistema dell’arte.

Concludo puntualizzando che la manifestazione è stata realizzata avendo un budget a disposizione equivalente a 0 (zero) , tutte le spese sostenute (materiali, locandine, personale) rientravano nella gestione corrente ed i materiali erano per l’80% di recupero.
 



Marina Buratti

Foto M. Buratti
Sono venuta per presentarvi una fase del mio lavoro che oggi ritengo conclusa e che ha avuto la durata di circa 10 anni, dal 2001-02 al 2010. Ho parlato di questo mio percorso a Bologna al Dams a cura di Stefano Ferrari, in due occasioni: nel 2010 e nel 2013.
Ho prodotto quest'anno anche un manoscritto che sta per essere pubblicato nella sezione Quaderni della rivista PsicoArt, a cura della sezione bolognese di Psicologia dell’Arte dell'Università. Quello che ho messo in atto è un percorso che oggi posso definire di fotografia-terapeutica, in un momento in cui non conoscevo l'esistenza dell'uso della fotografia in terapia psicoanalitica. A un certo punto della mia vita si sono evidenziati alcuni disturbi psichici con manifestazioni psicosomatiche che poi si sono legati a problemi di altro tipo. In modo inconsapevole ho iniziato ad elaborare una mia foto di quando ero bambina, risalente alla metà degli anni '60. Da questa foto sono nate più di 50 opere. Solo nel momento in cui l'ho mostrato, ho compreso il valore di questo lavoro che peraltro è decisamente perturbante.
Come artista mi definisco un' eclettica; sperimento diverse tecniche a partire dalla pittura e dalla grafica. La mia prima mostra personale di una certa importanza è stata quella alla galleria "Triangolo nero" di Alessandria, uno spazio rigoroso, dove avevo presentato una serie di carte nel 1999. La mostra era intitolata "Inhumare-Exhumare" . A partire da quel periodo ho iniziato questo lavoro sulla mia immagine fotografica che ho mostrato al pubblico solo dopo qualche anno. In questa serie di opere posso rintracciare una fase della mia attività che mi ha visto ricostruire la mia identità di artista di cui forse io non ero pienamente consapevole. L'immagine che ho elaborato e che io riconosco come il ritratto che meglio mi rappresenta è tratta da una foto di famiglia nella quale compaio con i miei genitori e mio fratello. Qui posso ricordare Roland Barthes, che nel testo "La camera chiara", parla dell’album fotografico della madre e in particolare di una foto di lei da bambina che egli ritiene essere l’unica foto che ne racconta la vera essenza. Forse io ho messo in atto lo stesso procedimento e attraverso dei ritagli ho isolato la mia immagine dal contesto originario. 
Sono nati così diversi lavori, soprattutto collage, ma non solo, infatti la foto è stata ad esempio ingrandita, riprodotta su vari supporti, ad esempio l’alluminio, ma ho lavorato anche usando fotocopie, e svariate tecniche come pastelli, etc.

Certamente si tratta di un lavoro molto intimo, fortemente introspettivo, del quale ancora non riesco a parlare in tutta serenità e che ha avuto senza dubbio un forte valore terapeutico contribuendo a definire ciò che sono oggi.

Mario Casanova direttore del Centro di Arte Contemporanea di Bellinzona, Biografia Mario Casanova , CACT Centro d'Arte Contemporanea Ticino

Ci ha portato alcune pubblicazioni del CACT, Centro d'Arte Contemporanea Ticino, parlandoci della situazione dell'Arte in Svizzera.



  




Paolo Facelli
Non sono né un critico, né un curatore ma un gestore di eventi artistici e l’argomento che vorrei sinteticamente affrontare riguarda l’emergenza dei budget alla cultura delle Istituzioni pubbliche destinati principalmente alle piccole-medie realtà associative, veri motori della crescita civile di una popolazione.
Fin’ora è stata esposta la situazione della Svizzera, ora provo a sintetizzare la situazione italiana per terminare con lo specifico piemontese. Un giorno un ministro disse che “con la cultura non si mangia” e credo nessun’altra affermazione sia così falsa e irresponsabile. Dietro una nazione che possiede una quota immensa del patrimonio artistico mondiale ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro, una produzione di ricchezza esponenziale, un indotto gigantesco. Chiedetevi perché attualmente oltre 20 città italiane, dal sud al nord, si stanno battendo, una contro l’altra, per la candidatura europea a Capitale della cultura per il 2019.
Disperante è invece la politica culturale del territorio piemontese, una regione che, fino a pochi anni fa, rappresentava un faro e l’esempio esportabile di tutte le politiche culturali italiane. Personalmente lavoro con gli enti pubblici sin dal 1998 e ricordo l’interesse pubblico straordinario per i benie per le attività culturali. Da quell’anno ad oggi la situazione è radicalmente cambiata, in peggio!
Le risorse regionali sono ridotte al lumicino e, solo grazie alla sensibilità ed intelligenza della Commissione Cultura del Consiglio che si è pronunciata in termini politicamente bipartisan, si sta tentando di fermare un declino degli investimenti che prevedeva addirittura l’azzeramento dei fondi. Nel 2009 c'erano ancora 130 milioni di euro, si è passati, nel 2011, a 59 milioni, nel 2012 a 49 milioni e ora nel 2013 dovremo confermare i 49, una linea del Piave sotto cui non si potrà mai scendere senza firmare la condanna a morte non solo delle realtà piccole e medie ma anche di tutte le grandi istituzioni culturali.
Ma se la politica regionale in qualche modo “eredita” un’impostazione metodologica di Giampiero Leo, l’Assessore alla cultura nella giunte Ghigo e voglio ricordare non solo le grandi realizzazioni come il Museo del Cinema o la Reggia di Venaria ma tutto il sistema che ora conosciamo delle eccellenze culturali piemontesi, ben diversa è l’impostazione della Città di Torino. Se in Regione era stata creata una classe di persone che lavoravano “dal basso”con grande autonomia e, allo stesso tempo, coinvolgendo tutto l’arco costituzionale, l’impostazione del Comune, linea confermata anche da Fassino e da Braccialarghe, è radicalmente diversa. La cultura della città obbedisce ad una logica personalistica, verticistica ed autoreferenziale, vale a dire l'Assessore disegna in proprio e in prima persona l’offerta culturale. Se, infine, questa impostazione si accompagna ad un abbattimento dei fondi comunali dedicati, lascio a voi immaginare l’impoverimento dell’offerta ai cittadini.
Tornando alla situazione regionale vorrei nuovamente rimarcare l’azione della “ridotta”, dell’ultimo baluardo rappresentato dalla Commissione Cultura della Regione Piemonte, composta da consiglieri regionali che, come rappresentanti di tutto l'arco costituzionale, hanno chiesto ed ottenuto di poter dare parere vincolante su tutte le materie provenienti dalla Giunta. Moltissimi sono stati gli incontri organizzati tra gli operatori del settore con questi consiglieri, al fine di recepire le nostre esigenze e tradurle in azioni concrete. Soluzioni comuni e condivise che possano rapidamente portare alla creazione di politiche culturali innovative ed efficaci. Si varerà presto il percorso degli Stati Generali della Cultura, riproponendo il territorio piemontese come esempio virtuoso.
Oggi molti criteri, alla base delle scelte dell’Assessorato, risultano quantomeno incomprensibili. Quale “ratio”, ad esempio, giustifica l’eliminazione dalla lista delle associazioni che beneficiano di una contribuzione, di quelle realtà che, l’anno precedente, hanno ricevuto un contributo minore di 5.000 euro? Oppure, perchè nessuna associazione può presentare più di un progetto all'anno? Ma se un Ente propone progetti di qualità, non dico dieci ma un paio in un anno, perché mai non doverli prendere in considerazione?
Forse che la logica sta tutta nell’azzeramento delle realtà associative? Nel 2010, solo nelle arti visive, vi erano 250 associazioni che ottenevano dei finanziamenti, nel 2012 ne sono rimaste 40!
Termino l’intervento ribadendo che questa battaglia è assolutamente bipartisan. Questa drastica riduzione che voglio pensare volesse immaginare una sorta di selezione qualitativa, sta ormai travalicando il lecito e sta mettendo in serissima difficoltà delle realtà che contribuiscono all’economia ed al lavoro. Molte di queste oramai sono state uccise e non si riavranno più. 
Facciamo in modo che non tutto il comparto venga sterminato.

Silvio Valpreda
Volevo prendere spunto raccontandovi di due mie recenti esperienze: una fiera e un mio esperimento, e da quello provare a lanciare delle domande sul ruolo dell'artista, su cosa deve fare l'artista, cioè sul ruolo sociale dell'artista.

Evento "Linguaggi" alla Galleria Oblom
Parto da questo "esperimento" che è stato fatto alla Galleria Oblom di Fabrizio Bonci, dove abbiamo fatto un incontro, che abbiamo intitolato "Linguaggi", che è nato da una mia idea ma che si è poi strutturata sul momento. Si è trattato di una serata nella quale ho invitato degli artisti (oltre a me c'erano i fannidada e Dario Neira) e degli scrittori, un romanziere, Saverio Fattori e un giornalista-saggista, Federico Faloppa. Abbiamo provato a discutere partendo dai rispettivi strumenti d'indagine cioè per gli artisti le opere di arte visiva, per il romanziere raccontare una storia, più o meno di invenzione e per il saggista il raccogliere dei fatti. Questa esperienza, che si è svolta all'interno degli eventi off del Salone del Libro, è risultata molto interessante come metodo di ricerca e di approfondimento
In particolare vorrei porre attenzione sui commenti che sono seguiti dopo l'incontro, in particolare lo scrittore Faloppa lo ha definito un “buon esperimento di arte militante". Per arte militante io intendo il fatto che abbiamo parlato di temi sociali attraverso una ricerca che parte dagli aspetti più poetici delle arti visive.

Foto S. Valpreda
Questo si ricollega al lavoro che ho portato qui, che sono delle opere che fanno parte di un mio ultimo progetto iniziato l'anno scorso con la mostra in Danimarca e che sto proseguendo ora
Foto S. Valpreda
Sono andato a lavorare sulla mia esperienza personale che è quella di aver creduto di poter, almeno da giovane, cambiare il mondo, in piccoli modi con piccoli gesti, senza propriamente fare la rivoluzione, avere un certo impatto positivo verso il mondo. Adesso mi rendo conto che sia io, che i miei amici coetanei, ci troviamo più a ripiegarci verso uno nostro privato più o meno buono e protetto che io ho simboleggiato in queste mio opere, con il contrasto tra l'esterno dove ho inserito delle parole che ho preso a caso dal sito del New York Times in un giorno qualsiasi, parole che ci arrivano dall'esterno e che in un momento passato mi avrebbero stimolato a cambiare le cose, mentre ora mi portano a rifugiarmi all'interno della mia casa, ripiegandomi verso un privato più o meno metaforico.
L'altra mi esperienza di cui volevo parlare, si riferisce all'esperienza di circa una settimana fa in Olanda, per un evento HUNTENKUNST che dalla traduzione dall'olandese possiamo chiamare "A caccia di artisti" e che si definisce International Podium for Artists. Podio, mostra di artisti, questo evento si presenta come una fiera dove, previa selezione, gli artisti hanno a loro disposizione uno spazio di 4 metrequadrati, dove possono presentare le proprie opere. Per me è stata la terza volta nella quale ho partecipato, dopo una pausa di alcuni anni. Ho potuto constatare un cambiamento nel tempo, c'è stata una fortissima diminuzione, tra gli artisti presenti, a proporre un'arte politica, o che comunque volesse comunicare qualcosa o fare una ricerca. Ho visto invece artisti che si preoccupavano solo dell'aspetto estetico, cioè di fare delle belle opere, delle opere ben fatte.
Ogni anno, in occasione di questa fiera viene ospitato un paese, e quest'anno è stato il turno della Lituania, e di tutti i 200 artisti invitati, circa 20 erano lituani.
All'interno di questa fiera c'è stata una discussione tra i diversi artisti, e da questa discussione è emerso che per molti la differenza tra ciò che è arte e ciò che non lo è si concretizza con la perizia tecnica con la quale è fatta un'opera.
Vorrei aprire a questo punto un dibattito, una riflessione sul rapporto tra arte militante ed arte estetica o estetizzante.


.... e momenti di pausa!

 

Nessun commento:

Posta un commento